ARCIONELLO: LA BATTAGLIA CONTINUA
		
		
		di
		
		
		Antonello Ricci
		
		 
		
		Intervento in rappresentanza del 
		Coordinamento "Salviamo l'Arcionello" al III Convegno di Studi sui 
		Centri Storici della Tuscia: "Giardini storici e parchi suburbani", 
		organizzato dall'Università di Roma "La Sapienza", dal Museo della Città 
		e del Territorio, dall'Ass. Storia della Città e dalla Ass. Dimore 
		Storiche Italiane sz. Lazio presso l'Aula Magna della Facoltà di 
		Architettura "Valle Giulia", Roma - Venerdì 20 febbraio 2004.
		
		17 luglio 2003: il Comune di 
		Viterbo approva un Programma Integrato per il recupero urbanistico della 
		valle dell'Arcionello. Numerose associazioni riunite nel Coordinamento 
		"Salviamo l'Arcionello" danno il via a una protesta sorridente, inedita 
		per la città. Tale protesta, affiancando ai più tradizionali dibattiti 
		uno studio rigoroso del territorio e la novità di passeggiate-racconto e 
		fanta-escursioni per ragazzini,1 
		riscuote ampi consensi e notevole risonanza sui mass-media locali. Ai 
		primi di ottobre arriva il congelamento del Programma, poi, a distanza 
		di 5 mesi (gennaio 2004), il suo ritiro e la contestuale presentazione 
		di un progetto rimodulato, certo meno invasivo del precedente. 
		L'evoluzione della vicenda, seppur provvisoria, segna una vittoria forse 
		senza precedenti nella vita della città. Anzitutto perché il nuovo 
		Programma prevede 20.000 mc in meno rispetto ai 154.000 iniziali. Poi 
		perché la rimodulazione degl'interventi ha dovuto rispettare il vincolo 
		d'inedificabilità sul corso d'acqua che solca la valle. Ma soprattutto 
		perché è stato il Comune stesso a richiedere più spazio per il verde 
		pubblico nel nuovo Programma: tanto che adesso di parchi se ne 
		promettono ben due. I Viterbesi hanno quindi scoperto che si può 
		incidere dal basso sulle decisioni del Comune. Che nel Far-West della 
		speculazione si può ristabilire almeno il rispetto della legge. E ora 
		sognano un parco per Viterbo. Un vero Parco.
		
		L'Arcionello è una suggestiva forra 
		disegnata dal fosso Urcionio e circondata da pareti a picco di peperino, 
		pietra vulcanica locale. Poche centinaia di metri a monte delle mura 
		dell'XI-XIII secolo. Si tenga presente che proprio l'Urcionio, che oggi 
		scorre intubato sotto la città, definì col suo andamento il profilo 
		della Viterbo medioevale. Lambito appena dall'espansione urbanistica 
		degli anni '60-'70, per qualche capriccio del destino l'Arcionello fu 
		risparmiato dagli appetiti del Godzilla palazzinaro. Oggi è una 
		singolare enclave campagnola assediata da brutti edifici, un buco nero 
		dimenticato in pieno centro urbano. Manti di rovi e ortiche 
		impenetrabili, sentieri interrotti, canneti e orti in via di abbandono. 
		Si sa, l'abbandono produce degrado. Poi le puntuali invocazioni alla dea 
		Igiene. Ed ecco che le ruspe sono tornate. Vorrebbero finire il lavoro.
		
		Il paesaggio dell'Arcionello non è solo 
		natura (comunque secolarmente antropizzata). Risalendo di poco il fosso, 
		dove la valle si stringe, affiorano lungo le prode cospicue tracce di 
		opere per la canalizzazione delle acque (salti con deviazioni, tratti di 
		acquedotto) e resti di opifici archeoindustriali: almeno un "molino 
		diruto" e una cartiera. Alcuni fra questi manufatti potrebbero 
		appartenere al XIV secolo. Più a monte, cave abbandonate, segno di 
		attività estrattive antiche e recenti. Durante la battaglia ci siamo 
		spesso chiesti: Viterbo è piena di monumenti in grado di illustrare la 
		sua antichità, perché tanto accanimento per "quattro sassi"?
		
		Una prima risposta potrebbe essere 
		"filologica": in essi ritroviamo l'ultima pagina leggibile della storia 
		economica di Viterbo, un rapporto ergologico col suburbio instaurato dal 
		Comune medioevale e prolungatosi pressoché inalterato fino al XX secolo. 
		Insomma, Arcionello come luogo della memoria e dell'identità civica. La 
		battaglia ha restituito alla consapevolezza della città un pezzo 
		importante della sua biografia. A partire dal nome stesso, sconosciuto 
		alle ultime generazioni: già per quelli della mia età "Arcionello" era 
		solo il nome di una pizzeria. E quanti Peter Pan cinquantenni hanno 
		rivissuto le scorribande di un tempo lungo le cascatelle dell'Urcionio! 
		Una volta di più con Pasolini: difendere questo passato senza nome, 
		umile e popolare. Difenderlo dall'omologazione presente.
		
		Proprio le rovine di cui parliamo, però, 
		corrono oggi il rischio più grave: non ricadendo infatti nelle aree 
		direttamente interessate dal Programma Integrato (i proprietari non vi 
		hanno aderito) esse non potranno essere incluse nei parchi attualmente 
		promessi dal Comune. Così indifese e dimenticate, finiranno certo 
		consegnate a inevitabile, definitiva cancellazione.
		
		Sarebbe una ragione già abbastanza 
		forte, ma c'è di più. A un livello che potremmo definire 
		"antropologico", ci viene in soccorso Marc Augé col suo recente libro 
		Rovine e macerie. Il senso del tempo.2 
		L'etnologo francese dialoga con Camus a Tipasa e Gide in Congo.3 
		Il fascino dei ruderi romani per l'uno, quello di fortezze e villaggi 
		abbandonati nell'Africa Nera per l'altro. A me sembra che parli anche 
		dell'Arcionello. Più che restituire un passato storicamente definito, 
		secondo Augé le rovine salvano il paesaggio circostante 
		dall'indeterminatezza d'una natura senza uomini, aprendoci così 
		all'esperienza di un tempo puro. Ma non come fuga dalla storia. Perché 
		"mentre tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il 
		mondo sia uno spettacolo nel quale quella fine viene rappresentata, 
		abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia." E 
		chiosa: "questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle 
		rovine".4
		
		Augé ricorre a una metafora 
		psicoanalitica: le rovine sono come un ricordo senza passato. In quanto 
		tale, condiviso. Tema importante, perché proprio su un colpevole oblio 
		(rimozione collettiva) sembra fondarsi tutta la storia recente del 
		nostro Paese.
		
		In questo senso il destino dell'area dei 
		manufatti dell'Arcionello è un caso clinico. Una vicenda che parte 
		addirittura dai tempi della stesura del PRG degli anni Settanta. 
		Un'amnesia progressiva, fatta di imprecisioni e omissioni 
		amministrative, per cui nel novembre 2003 il Comune è sul punto di 
		rilasciare licenza edilizia per una palazzina di 1500 mc da tirar su al 
		posto della già citata cartiera (manufatto del '600, nelle schede del 
		PRG i suoi resti erano stati definiti "di notevole interesse"). E a 
		pochi metri dal letto del fosso. Non fosse per la fortunata coincidenza 
		di tempi e luoghi con la più generale battaglia per l'Arcionello, a 
		quest'ora il cantiere sarebbe già inaugurato. Tutto fermo, con la 
		magistratura al lavoro, ma ci si chiede quanto potrà durare. La 
		cartiera, comunque, non è più in piedi. Sepolta viva da un mare di 
		sterro, versato non si sa quando né da chi. Vero e proprio caso di 
		killeraggio urbanistico.
		
		Il circolo vizioso, sempre uguale: 
		naturale declino produttivo e abbandono di un sito, sua 
		marginalizzazione urbanistica, degrado progressivo, invocazioni di 
		recupero come legittimazione per nuovo cemento. Questo progresso: una 
		strada dritta e senza fine. Storie d'Italia. Il palazzinaro Aldo Fabrizi 
		in C'eravamo tanto amati e il cinismo del giovane Gassman.
		
		Ma voglio essere provocatorio: 
		riconosco l'Arcionello anche nei cosiddetti "vuoti residuali"5 
		di cui parla Augé, spazi non riassorbiti dai cantieri dell'urbanistica 
		contemporanea, luoghi che si sottraggono "all'arroganza del presente e 
		all'evidenza del già qui". Interessanti proprio per il loro 
		"anacronismo", per la loro "incompiutezza" che promette una qualche 
		"rivelazione". L'Arcionello insomma come divertente lapsus, involontaria 
		risposta a una domanda che nessuno ha posto: anche lo skyline delle 
		mediocri palazzine anni '60-'70 che lo circondano dovrà far parte del 
		Parco che i Cittadini chiedono al Sindaco di Viterbo; quegli edifici 
		esprimono un alto valore pedagogico: testimoniano, immediatamente e 
		meglio di cento libri, quanto incivile e immatura fu la nostra 
		democrazia ai suoi tempi d'oro.
		
		La battaglia continua, dicevo. Il 
		Comune promette oggi due parchi pur contornati da nuove costruzioni. Noi 
		controbattiamo che si tratta di semplici giardini pubblici. E che dunque 
		non bastano. Un parco, un vero Parco non può ridursi a un'area 
		attrezzata a verde. Un verde puramente ricreativo non può risarcire i 
		Viterbesi dell'infelice città in cui si sono trovati a vivere. Non basta 
		un giardino-appendice del cemento consumista. Un Parco è questione più 
		alta, di identità e consapevolezza civica. Di pedagogia, appunto. Il 
		parco dell'Arcionello dovrà contrapporre ai troppi parchi-frammento di 
		questa Amministrazione, l'unità del paesaggio, l'identità della forra. 
		Il Parco dell'Arcionello dovrà risalire da via Genova alle pendici del 
		colle Palanzana, alle sorgenti dell'Urcionio, al pittoresco acquedotto 
		d'inizio Novecento. I Viterbesi dovranno mostrare ai loro Amministratori 
		la via del vero progresso, del bene condiviso. Premessa di felicità. Il 
		Comune, dal canto suo, dovrà ritrovare il coraggio dell'onestà. Ma 
		subito. Istituendo un'area protetta ben più vasta di quella del 
		Programma Integrato. Vincolando le rovine. Progettando orti urbani, 
		passeggiate-racconto, percorsi-natura ed un museo del territorio per la 
		ricerca e la didattica (con recupero di aree agricole e casali 
		abbandonati).6 
		Nella convinzione che un vero Parco sarà anzitutto una scommessa sul 
		futuro di Viterbo. E che ogni passato, per quanto brutto, può essere 
		trasformato.
		
		Vorrei chiudere con un ultimo 
		riferimento a Rovine e macerie. A un certo punto Augé parla di "utopie 
		nere" e del tema-rovine nella fantascienza.7 
		Penso a due straordinari romanzi. Il primo è 2001 Odissea nello spazio. 
		Nel corso del suo viaggio al termine dello spazio-tempo, il protagonista 
		costeggia uno spazioporto abbandonato: "non era più un parcheggio 
		spaziale: era un cosmico mucchio di rottami. [Egli] aveva mancato di 
		epoche l'incontro con i costruttori e, rendendosene conto, provò 
		un'improvvisa stretta al cuore".8 
		A un mancato rendez-vous col passato, e all'angoscia di quella stretta 
		al cuore, mi viene da affiancare un appuntamento senza scampo col 
		futuro: la disperazione di Charlton Heston folgorato dall'agnizione nel 
		finale de Il pianeta delle scimmie:9 
		il pianeta Soror su cui è sbarcato non è che la Terra migliaia di anni 
		dopo un'apocalisse nucleare. La scena si svolge ai piedi d'una Statua 
		della Libertà mezza insabbiata e battuta dall'insensata risacca 
		dell'oceano.
		
			
				
				
				1 
				Su queste iniziative (ed altre ancora) cfr. AA.VV. 2003, 
				Arcionello - un parco per Viterbo da via Genova alla Palanzana, 
				Stampa Alternativa, Roma; RICCI A. 2003, a cura di, Salviamo l'Arcionello 
				- album di "famiglia", Malavoglia, Viterbo.
 
			
				
				
				2 
				AUGÉ M. 2004, Rovine e macerie - Il senso del tempo, Bollati 
				Boringhieri, Torino.
 
			
				
				
				3 
				Cfr. CAMUS A. 1966, Saggi letterari - Il rovescio e il diritto, 
				Nozze, L'estate, Bompiani, Milano, in part. pp. 66-67, 168 e 
				173; GIDE A. 1950, Viaggio al Congo e ritorno dal Ciad, Einaudi, 
				Torino, in part. pp. 53-54, 137-138, 148 e 185.
 
			
			
			
				
				
				6 
				Cfr. AA.VV. 2003, passim (si tratta di un libro-mappa). Sulla 
				necessità di superare il semplice "congelamento" delle rovine ai 
				fini di una loro valorizzazione in chiave pedagogica cfr. RICCI 
				A., Luoghi estremi della città. Il progetto archeologico tra 
				"memoria" e "uso pubblico della storia", "Archeologia 
				medievale", XXVI, 1999, in part. pp. 35-37 (A. sta per Andreina).
 
			
			
				
				
				8 
				CLARKE A.C. 1968, 2001 Odissea nello spazio, Longanesi, Milano, 
				p. 307.
 
			
				
				
				9 
				Ma si tratta d'una felice invenzione di sceneggiatura: di questa 
				stessa scena non c'è traccia nel romanzo (in un punto cruciale 
				del quale incontriamo comunque le rovine di "una città sepolta 
				sotto le sabbie di un deserto": BOULLE P. 1975, Il pianeta delle 
				scimmie, Mondadori, Milano, p. 133).